Nella Bibbia il tema della fondazione dell’universo viene
presentato non tramite un solo racconto, ma attraverso un pluralismo di discorsi
e di rappresentazioni che hanno un tema comune: il mondo e la sua fondazione,
l’umanità e la sua origine. Questo pluralismo è chiaro indice del fatto che di
un evento particolare e complesso non è possibile formulare un’unica
rappresentazione. Se esistono più racconti, differenti tra loro ma non
contraddittori, di una differenza - direi - convergente e complementare, è
perché l’evento di cui si parla è così ricco e profondo che non può bastare un
unico modello per rappresentarlo, un unico racconto per esplicitarne la
profondità e l’eccesso di significati e di verità. Tali discorsi, però, anche se
appaiono scritti in maniera lineare, sono di fatto lacunosi e la loro
rappresentazione è incompleta.
Prendiamo, per
esempio, l’inizio: Nel principio Dio creò
i cieli e la terra. La terra era informe e vuota, le tenebre coprivano la faccia
dell'abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque. Dio
disse: «Sia luce!» E luce fu.
(Gen. 1,1-3).
Sebbene sembri
scorrevole, il racconto presenta enormi vuoti. La prima affermazione, molto
sintetica, è di fatto un titolo: c’è un soggetto (Dio), poi un’azione,
unica ed esclusivamente divina (creò), dal momento che il verbo ebraico
barah («creare») è utilizzato solo in riferimento a Dio e alla sua
azione, e infine l’indicazione della totalità (i cieli e la terra).
Successivamente compaiono altri elementi (le tenebre, lo Spirito di
Dio, l’abisso), i quali vengono presentati come parte integrante
della rappresentazione del mondo e della sua formazione, intesa come passaggio
dal kaos al kosmos, cioè da uno stato inospitale e invivibile per
le persone ad una realtà ordinata capace di ospitare la storia e l’avventura
umana; al tempo stesso, però, non ci viene rivelata l’origine e la natura di
questi elementi importanti.
Pluralismo,
dunque, per comunicare da punti di vista differenti e complementari, ma anche
l’accettazione di convivere con un’ignoranza, non marginale, che riguarda
elementi strutturali che si riferiscono alla rappresentazione del mondo e alla
sua formazione.
1. Quando si parla di
fondazione del mondo e di formazione dell’umanità, ci si trova di fronte ad una
prospettiva secondo la quale il tutto non viene semplicemente messo in relazione
con una divinità generica, ma con un Dio unico, concepito e rappresentato in
modo personale, trascendente, libero e cosciente. L’evento pertanto viene
raccontato da una prospettiva che possiamo definire, in senso stretto,
monoteista. Non è possibile affrontare qui il problema storico
dell’emergenza e della formazione del monoteismo nella storia d’Israele, se cioè
esso sia stato un elemento originario dell’esperienza degli israeliti raccolti
intorno a Mosè oppure il frutto di una lunga e complessa battaglia in favore di
una vera concezione di Dio che ha come protagonisti i profeti; resta comunque il
fatto che il testo, nella sua forma attuale, pone questo tipo di relazione. Non
semplicemente dunque una lettura religiosa, una narrazione in cui la realtà così
come noi la sperimentiamo è genericamente in relazione con il divino, ma un
racconto in cui la realtà che noi siamo è messa specificamente in relazione con
un Dio unico, trascendente, libero e cosciente.
Si tratta di un elemento decisivo
per le sue implicazioni antropologiche, perché, in conseguenza di ciò, l’essere
umano non avrà a che fare semplicemente con una realtà luminosa, temibile,
inquietante, impersonale, una realtà che potrebbe essere soltanto la
personificazione dell’universo e della totalità nel suo insieme, ma sarà
costituito in una relazione personale, libera e cosciente. Affermare che gli
esseri umani sono fatti a immagine e somiglianza di Dio significa dire che
l’immagine di Dio determina l’identità della persona umana. Per questo motivo
l’immagine che emerge da questi testi è decisiva per la comprensione dell’essere
umano, del suo sé, della sua verità, della sua avventura nel tempo e nello
spazio.
Tale prospettiva ha delle
conseguenze anche per quanto riguarda la comprensione del mondo, dell’universo
nella sua struttura e nella sua materialità: un mondo presentato nella sua
distinzione da Dio, nella differenza. La divinità è Dio unico e trascendente,
che non può essere in nessun modo né ridotto né confuso né equiparato al mondo o
all’universo, pur nelle sue straordinarie dimensioni o bellezze. Pertanto,
l’affermazione della trascendenza di Dio ha come effetto di evitare la
divinizzazione del mondo, di presentarlo come realtà buona e positiva, di una
bontà che non nasce da una mera prospettiva utilitaristica (è buono perché è
utile all’uomo), dal momento che il giudizio sul valore e sulla bontà è
formulato da Dio. In questa visione il discorso sul mondo evita le due grandi
tentazioni della divinizzazione e della demonizzazione: il mondo
non è né divinizzato né demonizzato, bensì benedetto. Dio dice bene del
mondo come opera sua e lo affida come opera buona alla responsabilità, alla
libertà e all’azione dell’umanità.
Un altro elemento importante è la
diversità dei modelli che vengono utilizzati per rappresentare l’azione di Dio
nei confronti dell’universo, inteso sia come il popolo d’Israele, la sua storia,
la sua cultura e letteratura, sia come i popoli circostanti con le loro storie e
le loro culture. Nell'area semitica si possono individuare cinque modi di
raccontare l’origine dell’universo.
a)
Il primo, affermatosi soprattutto in Egitto, è il modello dell’autoformazione
o autogenerazione: la realtà e il mondo si autogenerano e sembra che al loro
interno si generi anche la divinità.
b)
Il secondo è il modello bellico: il mondo si spiega a partire da
una guerra che oppone soggetti divini (la teomachia).
c)
Il terzo è il modello sessuale: la realtà è il frutto della
generazione, che, a sua volta, è frutto della unione sessuale tra il grande dio
padre e la grande dea madre.
d)
Il quarto è il modello del lavoro: la realtà viene formata.
e)
Il quinto è il modello della parola: la creazione è un'operazione
verbale.
Se nel racconto biblico fosse stato
valorizzato il modello bellico, la conseguenza sarebbe stata una divinizzazione
della guerra, intesa come punto di partenza della cultura e della realtà umana;
se fosse stato privilegiato il modello sessuale, l’atto sessuale avrebbe invaso
e dominato la realtà.
I modelli utilizzati nel libro della
Genesi sono, invece, quelli del lavoro e della parola. Il “fare”
di Dio è motivo ricorrente. L’azione divina è paragonata a quella del vasaio che
modella la creta, la polvere più fine in forma d’uomo e insuffla in essa lo
spirito che la fa divenire un essere vivente; la medesima azione è fatta con
tutti gli altri esseri che popolano il mondo e le grandi strutture che lo
compongono.
Se partiamo da quello che accade tra
gli uomini, soprattutto per quanto riguarda la creazione artistica, vediamo che
c’è una produzione, o meglio, una trasformazione della materia, trasformazione
che nasce da un atto umanissimo fatto di intelligenza, di intuizione, di
attenzione, di volontà di trasferire nella materia la propria capacità
creatrice, il proprio senso estetico. Il fare di Dio è presentato come un fare
ordinato, una costruzione minuziosa, che assegna ad ogni elemento della
struttura il suo tempo, il suo luogo e la sua particolare funzione, ed è
caratterizzato dall’efficacia e dalla razionalità che rendono possibile la vita.
Ma anche il fare di Dio è
subordinato alla parola (il settimo giorno Dio riposa). Non ci troviamo,
dunque, di fronte ad una assolutizzazione del lavoro: il lavoro non è tutto,
perché il tempo stabilito da Dio e offerto all’uomo è un tempo caratterizzato
dall’alternanza tra azione e contemplazione, lavoro e riposo. C’è allora la
valorizzazione del lavoro, ma anche la sottomissione ad un fine che è la sua
cessazione, una cessazione che, lungi dal denotare disprezzo o rifiuto
dell’attività lavorativa, indica la necessità di trovare il tempo per
contemplare e godere realmente e profondamente dei frutti del proprio lavoro.
Il modello fondamentale è, dunque,
quello della parola: la parola è efficace perché dalla parola nasce l’essere (Dio disse: «Sia luce!» E luce fu); la parola che fa essere può
essere definita una delle manifestazioni più personali e dovrebbe essere
cosciente e libera. La parola esprime l’interiorità della persona che parla,
rende manifesto il mondo interiore, il mistero o l’enigma del soggetto parlante.
La categoria fondamentale utilizzata
nel libro della Genesi è proprio quella della parola. Secoli prima di noi, i
maestri ebrei, amorevolmente attenti al testo, avevano notato come nel primo
capitolo ricorra dieci volte l’espressione «Dio disse», una scelta
sicuramente intenzionale; le dieci grandi parole che fondano l’ordine del mondo
rimandano alle dieci parole che fondano l’ordine morale – il mondo è stato fatto
con dieci grandi parole e dieci parole sono state date ad Israele per vivere
nella via della verità, nella via di una umanità liberata (Esodo 20).
Dunque centralità della parola in
relazione all’essere. Osservata nella sua prima formulazione (E Dio disse
«Luce» e luce fu. E Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle
tenebre. E chiamò la luce «giorno» e le tenebre «notte». E fu sera e fu mattina:
1,3-5), questa parola contiene i seguenti valori: la parola che fa essere, la
distinzione fra luce e tenebre, la nominazione. Ecco le categorie fondamentali
per pensare e per costruire una relazione con il mondo che sia modellata sulla
relazione originaria di Dio con la realtà stessa. La parola che fa essere, che
valorizza e accoglie la differenza come qualcosa di significativo, la ricerca e
l’individuazione del senso della realtà.
La scelta dei due modelli
lavoro-parola, tutt’altro che casuale, implica intenzionalmente un rifiuto e
una critica implicita dei modelli alternativi. Ci sono frammenti in cui si può
constatare che, per esempio, il modello militare era qualche volta utilizzato
anche all’interno della comunità d’Israele (tema della vittoria militare di Dio,
la lotta originaria tra Dio e il Leviatano o il drago delle origini…), ma più
per motivi estetici che ideali. Si fonda così una società i cui due grandi
pilastri, i due grandi modelli della comunicazione sono la parola e il lavoro
con le caratteristiche descritte e rappresentate nei capp. 1-2.
All’interno di questa impostazione,
un ruolo di primato e di centralità è assegnato all’umanità. Primato,
perché nel cap. 1 l’essere umano, pur rappresentandone il vertice, non è il fine
ultimo dell’opera di Dio, visto che il compimento è, di per sé, il sabato; nel
cap. 2 si evidenzia invece la centralità dell’essere umano in quanto egli
rappresenta la prima delle opere di Dio, mentre il resto viene costruito intorno
all’uomo (E Dio disse «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza. E
domini sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, su tutte le bestie
selvatiche»: 1,26). Il punto di partenza di questo discorso intorno
all’origine dell’uomo, all’emergenza del fenomeno umano, è il discorso di Dio
che possiamo immaginare come una specie di dialogo interiore: Dio parla con gli
esseri della corte celeste, presupposti o preimmaginati, quasi si trattasse di
un Consiglio divino. Certamente esiste una rottura, un modo di raccontare unico
perché utilizzato solo in relazione all’origine dell’uomo; un modo sicuramente
letterario di far emergere la posizione particolare e la relazione unica e
particolare tra Dio e l’umanità.
L’uomo viene rappresentato come il
frutto di questa particolare e cosciente relazione con Dio: a propria
immagine e somiglianza. Tale espressione si ritrova anche nel cap. 5,
laddove, costruendo la prima genealogia, si ricorda la relazione tra Adamo e il
figlio suo (Adamo generò un figlio a propria immagine: v. 3): il
linguaggio fa pensare che il termine immagine equivalga a parentela,
per cui l’umanità è in relazione filiale con Dio il Creatore. Ciò non toglie
che, in riferimento ai modelli culturali del tempo, si possa svolgere anche una
lettura politica: vi era infatti l’abitudine di segnare l’appartenenza di un
territorio ad un determinato sovrano collocando in quel territorio un’immagine
del sovrano stesso.
Si sottolinea, in questo modo, la
relazione personale, per cui il rapporto tra Dio e l’umanità deve essere
pensato sul modello del rapporto padre-figlio. Inoltre il rapporto
Dio-uomo-mondo può essere rappresentato sul modello del rappresentante:
l’uomo è colui che deve rappresentare Dio nell’universo, che deve essere
l’immagine di Dio all’interno dell’universo creato da Dio.
Il compito originario affidato
all’umanità è quello di essere custode della vita nella sua forma più alta, cioè
la vita umana (Dio li benedisse; e Dio disse loro: «siate fecondi e
moltiplicatevi»: 1,28); lungi dal propagandare e giustificare una crescita
illimitata e incosciente, questa espressione, per tanti aspetti ambigua, fragile
e problematica, ha lo scopo di dimostrare che il primo dovere dell’uomo è di
essere custode dell’uomo stesso, cioè di amare la vita dell’uomo in quanto
espressione più alta dell’opera di Dio. La fragilità umana implica la morte,
mentre la sua ambiguità deriva dall’essere fatto a somiglianza di Dio, con il
rischio di abusarne cercando di sostituirsi a Dio, trascinando o contaminando
con propria caduta la realtà intera. Se, dunque, il vertice dell’opera di Dio è
“fare l’uomo”, anche il vertice dell’opera dell’uomo potrebbe essere proprio
“fare l’uomo”.
Il passo
ulteriore è quello di «riempire» la terra e di «dominare» sugli animali (riempite
la terra, rendetevela soggetta, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del
cielo e sopra ogni animale che si muove sulla terra:
1,28). I termini impiegati richiamano, senza possibilità di equivoci, la
superiorità e il dominio dell’uomo. È importante, a questo proposito, definire
la natura del dominio, il quale non deve giustificare il dispotismo o il potere
indiscriminato, amorale o immorale. Per comprendere meglio, ci si può rifare
all’idea che nel popolo d’Israele si aveva della regalità, secondo la quale la
funzione del re è di utilizzare il proprio potere per essere il custode, il
patrono delle persone che gli sono affidate, soprattutto di quelle che non hanno
i mezzi per affermarsi e per difendere il proprio diritto di vivere nella
dignità umana (Salmo 72); oppure si può pensare all’immagine che associa il re
al pastore, il quale deve aver cura delle pecore (Ezechiele) e non utilizzare il
potere come sfruttamento o parassitismo (Samuele). Non a caso Mosè utilizza
l’immagine del regno di Dio in cui Dio è proclamato re perché ha usato la
propria potenza per restituire alle vittime del genocidio d’Egitto il diritto di
vivere con dignità e speranza (Con la
grandezza della tua maestà, tu rovesci i tuoi avversari:
Esodo 15,7).
E’ in questa accezione, dunque, che
dobbiamo considerare la dignità e la superiorità dell’essere umano nei confronti
degli altri esseri viventi: la responsabilità su cui si fonda il suo compito
nella storia deriva da fatto di essere a immagine di Dio.
Ciò viene
espresso anche dalla parola sul regime alimentare originario, che si desume
fosse vegetariano (Ecco, io vi do ogni erba che fa seme sulla superficie di
tutta la terra, e ogni albero fruttifero che fa seme; questo vi servirà di
nutrimento: 1,29); ovviamente, in un testo come questo, non si tratta di
stabilire una norma per il presente, ma di suggerire una caratteristica della
convivenza tra gli esseri viventi secondo il progetto originario di Dio che
conserva la sua validità, anche se è stato ferito e messo in discussione dalla
violenza che nasce dal cuore dell’uomo.
Il modo in cui l’umanità è chiamata
a riempire la terra e ad esercitare il proprio dominio su di essa è certamente
non violento: l’essere umano non deve usare la violenza neppure per soddisfare i
bisogni elementari e alimentari.
La precedenza letteraria del secondo
racconto, anch’essa intenzionale, descrive come l’uomo sia impastato della
stessa polvere degli animali; qui vi è un’attenzione maggiore a sottolineare l’animalità
dell’uomo, come anche la sua differenza, poiché l’uomo è l’unico a ricevere il
soffio di Dio che lo costituisce persona capace di relazione e collaborazione
con Lui.
La categoria originaria è dunque
quella dell’immagine e somiglianza con Dio; questa è la prima parola, la parola
originaria che non abbandonerà mai l’esistenza e l’avventura umana, perché non è
mai revocata essendo un dono di Dio e, come tale, irrevocabile.
2. Accanto a questa realtà, però, ce n’è un’altra, non
luminosa ma negativa: il peccato. Queste due realtà non possono essere poste
sullo stesso piano; sono raccontate insieme, sono intrecciate, ma non hanno la
stessa forza e non possono essere considerate in modo equivalente.
Certamente l’aspetto oscuro,
l’aspetto fallimentare del peccato è parte integrante di questa grande
meditazione sulla fondazione dell’universo e della formazione dell’uomo e non si
può parlare di un solo peccato, ma di vari peccati: il peccato di Adamo ed Eva,
il peccato di Caino, che si prolunga in quello di Lamec (4,23-24) e che, a sua
volta, si estende al peccato di tutta l’umanità violenta, il peccato del figlio
di Noè, il peccato degli uomini nella loro totalità contenuto nel racconto della
Torre di Babele.
Raccontare le origini del mondo è
avere coscienza che l’aspetto negativo e tenebroso dell’esperienza umana ha
molti aspetti che meritano di essere presi in considerazione.
a) Il primo peccato che
analizziamo è quello di Adamo ed Eva, peccato che deriva dal proposito di
divenire simili a Dio: è una tentazione di autodivinizzazione. A questo
riguardo, la tentazione fa leva su una realtà presente, sul dono reale di Dio,
poiché l’umanità è stata creata a sua immagine e somiglianza e su queste basi è
possibile coltivare il desiderio o il sogno di essere come lui.
Nella tradizione dei Padri greci lo
si tratta come un peccato di impazienza: l’uomo ha voluto decidere da se stesso
quali sono i tempi e i modi per realizzare la propria identità; per i Padri
latini invece il peccato di Adamo è soprattutto un peccato di orgoglio, in
quanto volontà di sostituirsi a Dio. In ogni caso, la tentazione fa leva su
qualcosa che appartiene veramente all’uomo e alla sua storia, a un valore che
può portare il peso di un ideale o può essere generatore di un sogno e, insieme
a questo, la promessa dell’immortalità e della conoscenza del bene e del male.
Il peccato si fonda, allora, su una
forma di diffidenza profonda e radicale; il tentatore suggerisce la proibizione
di Dio per certe cose, l’esclusione deliberata da certe situazioni per impedire
la realizzazione e la pienezza dell’uomo. Ecco qui instillato il sospetto nei
confronti di Dio, che non appare più come il Padre, ma come qualcuno che,
vedendo nell’uomo un rivale e avendone paura, lo vuole escludere dal godimento
del beneficio. L’immagine di Dio viene allora deformata: Dio è visto come colui
che dà molto, ma un molto qualitativamente e volutamente ridotto, che fa finta
di dare tutto ma che poi trattiene per sé la cosa più preziosa. E quando Adamo
ed Eva si lasciano tentare, rimangono vittime e prigionieri di questa nuova
immagine che hanno accolto ed elaborato per cui Dio diventa sospettabile e non
più credibile.
Si potrebbe anche aggiungere che il
peccato originario è una forma di ateismo, perché ha a che fare con la questione
di Dio, verte direttamente sul modo di pensare e rappresentare il mistero di Dio
e opera la sua trasformazione radicale. Partendo da questa trasformazione,
l’essere umano diventa vittima della propria immaginazione, nasce la paura di
Dio che diventa il padrone che giudica e punisce le azioni. In qualche modo Dio
si sdoppia, diventa insieme padre e giudice, con le inevitabili tensioni e
conflitti tra questi due ruoli.
b) L’altro grande racconto di
peccato è contenuto nel cap. 4: l’episodio di Caino e Abele non mette in
discussione l’immagine del volto di Dio, ma l’immagine del volto dell’altro,
dell’altro da me.
Ci si trova di fronte a due
fratelli, diversi per età, professione e per il tipo di rapporto con Dio; il
testo non dice niente di più e ciò ha dato origine a vari tentativi di spiegare
e, quasi, di giustificare questo diverso atteggiamento: Caino non accetta la
bontà e la generosità di Dio verso il fratello, forse sostenuto da una
concezione dell’uguaglianza per cui il padre o la madre dovrebbero dare non
secondo il bisogno di ciascuno, ma in parti uguali.
Abbiamo allora un conflitto di tipo
personale, un conflitto di tipo culturale e un conflitto che ha a che fare con
il mistero della grazia, che ha a che fare con il modo in cui ci si pone nei
confronti della gratuità, di un dono dato all’altro. Possiamo immaginare chi sia
Abele agli occhi di Caino: venuto meno l’aspetto fraterno, Abele appare
semplicemente come il rivale, colui che si appropria di ciò che potrebbe essere
suo, colui che gode di una generosità di cui egli dovrebbe essere il
destinatario in quanto primogenito.
Anche in questo caso si assiste ad
una deformazione originaria: l’altro non è più semplicemente quello che è unito
da un rapporto di sangue e da una appartenenza alla stessa terra, ma è
l’avversario, il nemico; la conseguenza che ne deriva è la nascita di un’azione
aggressiva che, eliminando l’ostacolo, spinge a diventare il beneficiario unico
del bene desiderato.
Dietro questo evento si esprime
anche una riflessione sui rapporti fra culture diverse o sul progresso
culturale, una visione certo non molto ottimista; alla fine di questa storia si
afferma il rappresentante della cultura contadina sul rappresentante della
cultura pastorale attraverso l’uso della forza e l’annientamento fisico; il
progresso arriva mediante l’annullamento dell’altro; non dunque la conservazione
e la valorizzazione della differenza, ma la cancellazione violenta, la
soppressione, l’annullamento delle differenze.
Anche questo peccato, che si
potrebbe definire anch’esso originale, può servire come modello
esemplare, perché indica una delle radici che è l’invidia nei confronti del
fratello. Da qui proviene quel processo di deformazione sentimentale dell’altro
che può portare alla violenza, salvo poi scoprire alla fine che ciò non
rappresenta il divenire l’erede del bene e della generosità di Dio, ma
inevitabilmente porta alla perdizione e alla perdita di tutto (tu sarai
vagabondo e fuggiasco sulla terra: 4,12).
Questa violenza
originaria si espande sino a uno dei figli di Caino, Lamec, in un crescendo
sproporzionato di colpa e vendetta: «Sì,
io ho ucciso un uomo perché mi ha ferito, e un giovane perché mi ha contuso. Se
Caino sarà vendicato sette volte, Lamec lo sarà settantasette volte» (4,23-24). Ma il cammino della violenza continua fino ad arrivare
a 6,11: la terra era corrotta davanti a Dio; la terra era piena di violenza.
Ecco dunque il primo grande peccato sociale: la violenza.
c) Il
peccato del figlio di Noè è descritto in 9,20-25: Noè, che era agricoltore,
cominciò a piantare la vigna e bevve del vino; s'inebriò e si denudò in mezzo
alla sua tenda. Cam, padre di Canaan, vide la nudità di suo padre e andò a
dirlo, fuori, ai suoi fratelli. Ma Sem e Iafet presero il suo mantello, se lo
misero insieme sulle spalle e, camminando all'indietro, coprirono la nudità del
loro padre. Siccome avevano il viso rivolto dalla parte opposta, non videro la
nudità del loro padre. Quando Noè si svegliò dalla sua ebbrezza, seppe quello
che gli aveva fatto il figlio minore e disse: «Maledetto Canaan! Sia servo dei
servi dei suoi fratelli!».
Anche questo racconto appartiene ai
testi di origine ed ha a che fare con la paternità, con la scoperta dei limiti
della paternità, con la scoperta che il padre non è perfetto, non è Dio. La
grande questione è, dunque, come reagire alla scoperta dell’errore, dei limiti,
della fragilità del padre; il figlio si trova di fronte la nudità del padre, e
non soltanto in senso fisico. La prima reazione è quella della mancanza di
rispetto, dell’irrisione e del tentativo di fare di questo atteggiamento
irrispettoso la legge comune dei fratelli, cercare di renderli complici nel
disprezzo della debolezza del padre. Al rapporto che in seguito verrà
caratterizzato dal termine “onore” (onora il padre), si contrappone il
disprezzo, non l’aggressione ma il rifiuto della dignità e la perdita di
rispetto.
Qui avviene la divisione tra i
fratelli che ha come conseguenza la loro diversa avventura: benedizione e
maledizione. Lo schema è molto semplice e indica uno dei temi originari perché è
in questione il modo di diventare uomo. Il tipo di rapporto in relazione a Dio,
al fratello, al padre: questi i passaggi inevitabili per la realizzazione della
propria identità a immagine e somiglianza di Dio.
d) Il
quarto grande peccato è narrato nel cap. 11: Tutta la terra parlava la stessa
lingua e usava le stesse parole. Dirigendosi verso l'Oriente, gli uomini
capitarono in una pianura nel paese di Scinear, e là si stanziarono. Si dissero
l'un l'altro: «Venite, facciamo dei mattoni cotti con il fuoco!» Essi
adoperarono mattoni anziché pietre, e bitume invece di calce. Poi dissero:
«Venite, costruiamoci una città e una torre la cui cima giunga fino al cielo;
acquistiamoci fama, affinché non siamo dispersi sulla faccia di tutta la terra».
Qui l’umanità ha
progettato un mondo caratterizzato da una unità culturale, da una sola lingua,
da una stessa economia, il tutto orientato verso un’impresa ai confini della
divinità. Ed è proprio qui che interviene la decisione di Dio di frantumare
l’unità utilizzata in quel modo; si tratta della volontà di condannare il
peccato nella sua dimensione sociale, cioè l’omologazione della società e della
cultura di massa, del numero e dei meccanismi del sistema economico, tutto
orientato ad un’opera che dovrebbe arrivare a divinizzare il sistema stesso.
L’ultima parola però non è quella
del peccato, bensì quella del racconto di una grazia, di una generosità di Dio
più grande delle rivolte, più grande delle incomprensioni.
Tutti i racconti di Genesi 1-11 sono una celebrazione, non
trionfalistica, del bene e della parola che, attraverso il fallimento, il dolore
che ne consegue, le lacerazioni che ne derivano, permette di attraversare e di
continuare la storia e l’avventura umana nella memoria degli ideali ritenuti
sempre validi e proiettati come il fine di un cammino.
Conversazione tenuta
presso la Fondazione Serughetti La Porta il 18 ottobre 1999
Testo non rivisto
dall’Autore
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